Gobetti comunista? Ma mi faccia il piacere!

Non mi avventurerò sui sentieri che molti protagonisti della cultura ufficiale italiana (la Kultura, appunto), percorrono con disinvoltura: le classificazioni degli intellettuali e/o delle etnie intellettuali o intellettualoidi non mi appassionano e mi paiono sterili, dominate da narcisismi di varia natura e non libere. Non mi avventurerò su quei sentieri perchè non li amo e mai li potrò amare. Orbene, io penso che Piero Gobetti sia "inintegrabile" e "scandalo", esattamente come diceva, di Pannella, Pasolini. Eppure, tanti, troppi, hanno tentato e tentano di recuperarlo utilitaristicamente e strumentalmente alla loro storia e alla loro tradizione: in ciò la Kultura della c.d. sinistra è stata ed è maestra, ma anche la Kultura della c.d. destra non sta a guardare. Le operazioni di falsificazione e/o liquidazione di cui sono vittime, solo per fare qualche nome, Gobetti, i fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi, sono ora compiute e lo saranno ancor più in futuro su Marco Pannella e sui radicali: il genocidio politico-culturale è in corso, sarà perfezionato e legittimato. Anche questo fronte, quello della Kultura, non deve essere trascurato: è pericoloso quanto e più di altri, a mio avviso.

Ciò premesso, invitando chi si imbattesse nella lettura di questo blog a leggere o rileggere con me, in queste ore, Piero Gobetti, entro nel merito. La concezione che Gobetti ha dell'individuo, della libertà, del popolo, del partito, dell'economia, della lotta politica, della... Rivoluzione SONO (anche ora, dopo ottanta anni), radicalmente (!), diverse da quelle comuniste o post-comuniste. Spiega Gobetti:

"Il nostro liberalismo, che chiamammo rivoluzionario per evitare ogni equivoco, s'ispira ad un'inesorabile passione libertaria, vede nella realtà un contesto di forze, capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione, intende l'ordinamento degli ordinamenti politici in funzione delle autonomie economiche, accetta la Costituzione solo come una garanzia da ricreare e rinnovare. Lo Stato è l'equilibrio in cui ogni giorno si compongono questi liberi contrasti: il compito della classe politica consiste nel tradurre le esigenze e gli istinti in armonie storiche e giuridiche. Lo Stato non è se non è lotta". (P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale, giugno 1923)

"La democrazia è punto di partenza della quale è propria l'affermazione della legittimità di ogni forma di pensiero, e la negazione di tutte le rivelazioni di verità, perchè la verità è concretazione e creazione di ogni individuo, ed è insieme progresso e universalità che trascende la possibilità dei singoli". (P. Gobetti, Energie Nove, gennaio 1919)

Ma si può andare anche oltre Piero Gobetti, per sottolineare come la distanza siderale tra il filone di pensiero liberalsocialista o socialista liberale e il mondo comunista, sia rintracciabile anche nei fratelli Rosselli e nel movimento di Giustizia e Libertà. Infatti, questo è ciò che pensava Nenni della rivoluzione libertaria e anti-statale di G.L.: "Questa conclusione è del tutto logica da parte di un movimento staccato dal proletariato e ideologicamente legato alle posizioni utopistiche dell'individualismo e dell'anarchismo borghesi. Noi siamo convinti da tempo che è su questo terreno che la rottura e la lotta saranno inevitabili, e decisive, fra l'antifascismo proletario e l'antifascismo piccolo borghese ligi all'ideale reazionario della piccola concorrenza. La nostra bandiera, la bandiera del proletariato, sarà quella della rivoluzione socialista attraverso la conquista proletaria dello Stato, la completa eliminazione della concorrenza, l'organizzazione di un'economia collettivista, condizione essenziale, oggi, del pensiero sociale e della libertà umana". (Pietro Emiliani alias Pietro Nenni, Nuovo Avanti, aprile 1936).

Questo poi quello che pensava Palmiro Togliatti di Rosselli e dei "fascisti dissidenti" di G.L. (così furono definiti gli aderenti a G.L.): "Rosselli è un ideologo reazionario che nessuna cosa lega alla classe operaia", [...], un dilettante dappoco privo di ogni formazione teorica seria", [...], "un ricco legato oggettivamente e personalmente a sfere dirigenti capitalistiche", [...], un "intellettuale dilettante, il piccolo borghese presuntuoso che alla disciplina scientifica sostituisce il gioco vano delle idee generali masticate a vuoto"; e sullo scritto "Socialismo liberale": "si collega in modo diretto alla letteratura politica fascista",[...], Rosselli "non solo tenta di rivedere, ma pretende di liquidare il marxismo", [...], "ma che cosa è questa critica del marxismo se non una critica fascista? Da che cosa hanno preso le mosse i fascisti, agli inizi della loro lotta violenta contro il movimento socialista, se non da una polemica di questo genere?". (P. Togliatti, Lo Stato operaio, settembre 1931)

Sono tante le riflessioni che queste citazioni determinano, tante le cose da dire e mi rendo conto delle difficoltà e dei rischi che incombono. Orbene, per "assaporare" Piero Gobetti è necessario tenere presente la tradizione nella quale si riconosce, la realtà che viveva e gli obbiettivi della sua AZIONE culturale e politica. Gobetti si sente ed è espressione di un "filone di pensiero nazionale di alto valore e significato, radicato nella storia italiana, di origine e matrice liberale": è il liberalismo eretico sette-ottocentesco; di questa storia lui si fa storico e coerentemente agisce sul piano politico. Gobetti ricerca le caratteristiche della "coscienza nazionale che nasce operosamente in Piemonte", vuole "interpretare la funzione filosofica del Piemonte, sinora dimenticata" al fine della "creazione della nuova realtà ideale italiana": è questo il suo obbiettivo, tutta la sua azione è in tensione verso l'Italia e non per nazionalismo, ma perchè il modello culturale che ricerca è in Italia e nella sua storia.

Secondo Gobetti, Vittorio Alfieri sta alla storia d'Italia come J.J. Rousseau sta a quella francese, tuttavia "la statica concezione di Rousseau e l'incapacità sua di comprendere l'organismo sociale è superata dal nostro in una visione trascendentale che riconduce libertà e tirannide a un principio pragmatico e a una dinamica volontaristica". Gobetti riconduce il 1789 francese, sul piano concettuale, nello spirito e nella sostanza, al libertarismo di Alfieri e giustifica la posizione di Alfieri contraria alla Rivoluzione Francese col fatto che "essa, per la sua forza, ha finito per imporre ad un'Italia incapace di dominare e di precorrere lo sviluppo mondiale, soluzioni esterne". [...] "Se la conquista napoleonica dell'Italia ebbe un valore d'impulso nell'aspirazione all'unità, essa non fece all'ora della soluzione che aumentare l'equivoco e un Risorgimento italiano, anche in proporzioni ridotte, si ebbe solo da una reazione al sensismo e all'Enciclopedia che riaffermò una tradizione specifica e una originalità nazionale". [...]

La Rivoluzione Francese "nonostante gli entusiasmi dei nostri illuministi diventava tirannide appena trasportata in Italia". [...] "l'invasione francese - che per istinto di uomini di Stato non trovava tra i piemontesi gli entusiasmi che aveva sollevati nelle altre regioni del Nord - turbando e interrompendo un processo appena iniziato, impedì l'organizzarsi di un'aristocrazia che da una generica adesione agli ideali alfieriani riuscisse a un'azione politica positiva". [...] "la storia controversa dell'unità d'Italia dimostra che non vi può essere consistenza ideale fuori dalle tradizioni". [...] "Gli ultimi fatti della vita italiana ripropongono il problema di una esegesi del Risorgimento svelandoci le illusioni e l'equivoco fondamentale della nostra storia: un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia". [...] "soltanto da una preparazione di costumi e di forme non provinciali potrà scaturire un movimento libertario che viva di responsabilità economica e di iniziative popolari rinunciando alle sterili ideologie di disciplina, ordine, gerarchia. Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori): che dovevano essere le condizioni e le premesse di una lotta politica coraggiosa, strumento infallibile per la scelta e il rinnovamento della classe governante". [...] "In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe della vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non era una esigenza, ma una formalità giuridica: il contribuente paga bestemmiando lo Stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il Parlamento italiano [...] è demagogico, parlamentaristico sin dal suo nascere perchè è nato dalla rettorica, dall'inesperienza, dal mimetismo. C'è un tentativo non mai interrotto nella legislazione italiana per far diventare la piccola proprietà un fatto universale, per costringere tutti a questa legge: le classi nullatenenti (primi gli impiegati) tendono a partecipare alla piccola proprietà attraverso il parassitismo a spese dello Stato. I socialisti italiani hanno aderito a questa politica cercando di ottenere per le classi proletarie la legislazione sociale. Giolitti ha avuto l'eroico cinismo di presentare come liberale questa politica di saccheggio dello Stato. Sembrò che la guerra tendesse ad abolire la descritta mentalità dei piccoli proprietari meschini, anarchici e sfruttatori, col farli partecipare largamente allo sforzo della Nazione attraverso le sottoscrizioni al prestito. Ma si tratto anche qui della gioia piccolo-borghese di carpire allo Stato il grasso interesse. [...] In Italia il problema della burocrazia non è più solubile dal momento che per fare gli italiani abbiamo dovuto farli impiegati, e abbiamo abolito il brigantaggio soltanto trasportandolo a Roma. [...] Le classi borghesi mancano di una coscienza capitalistica e liberistica, e cercano di difendersi, di non lasciarsi sopraffare partecipando esse pure all'accordo e facendosi pagare in dazi doganali e sussidi ciò che devono elargire in imposte. L'operaio e l'agricoltore non usano avvedersi di questo ultimo anello della catena per cui il beneficio iniziale torna a ricadere su di loro. Mancando di iniziativa coraggiosa hanno bisogno di delegare, anche a proprio danno, allo Stato la funzione di allontanar l'imprevisto e il pericolo. [...] Bisogna che nuove condizioni di maturità economica preparino le aristocrazie adatte (operai, intraprenditori agricoli, capitani d'industria, principi mercanti) a sostituire il governo degli impiegati di Colombino, di Rossoni e di Farinacci. Solo con la coscienza di questi fini la rivolta antiburocratica e l'invocazione alle iniziative regionali potranno migliorare il nostro costume politico".

In questo quadro, "Torino fu la città moderna della penisola", dove "l'esperienza dei nuovi sistemi produttivi alimentava negli individui una coscienza sociale". [...] "A Torino l'accentramento industriale venne creando l'accentramento operaio. La selezione degli spiriti produttivi promosse la selezione delle intelligenze. E' a Torino che nasce il "grandioso movimento dei consigli di fabbrica" e Gobetti se ne "innamora". "Si sapeva, contro le astrattezze dei programmi di socializzazione, quale importanza dovesse attribuirsi al problema del risparmio nell'industria, quale parte spettasse nella produzione agli intraprenditori. Il consiglio di fabbrica poteva soddisfare, nel pensiero dei suoi teorici, anche le esigenze degli impiegati, non in quanto siano piccoli-borghesi, ma in quanto sono impiegati, elementi della produzione. Si può concludere insomma che le esperienze concrete dell'azione politica avevano liberato completamente i giovani comunisti torinesi dalle illusioni e dai luoghi comuni del socialismo e dell'internazionalismo. Essi videro nel movimento operaio un valore liberistico. Se il loro esperimento è fallito resta tuttavia uno dei più nobili sforzi che si siano tentati per rinnovare la nostra vita politica".

E' ragionevole pensare che Gobetti avrebbe avuto lo stesso "innamoramento" se quella spinta "rivoluzionaria" fosse emersa altrove, ma la realtà , la storia e la borghesia italiane erano e sono ancora, quelle e non altre. Non è un caso se Gobetti, quando "analizza il fenomeno comunista", non guarda certo al P.C.d'I., ma agli operai che avevano guidato l'occupazione delle fabbriche: egli non era nè vicino, nè solidale con la politica del partito comunista. In una lettera dell'aprile 1921 a G. Papini, egli scrive:"Io faccio la critica teatrale e letteraria dell'Ordine Nuovo, benchè sia tutt'altro che comunista, per tenermi in contatto col movimento operaio che qui a Torino è moralmente migliore che altrove, sebbene in quest'ultimo mese sia andato molto peggiorando, il che mi preoccupa assai".

Quindi, quello che taluni definiscono “innamoramento di Gobetti per il comunismo”, si spiega ed è coerente con la natura profondamente laica del suo liberalismo e con la sua dominante concezione etica della politica.
Le letture che, per fare qualche nome, Colletti, Ricossa, Galli della Loggia e Flores d'Arcais (ehm!) ci forniscono del pensiero di Piero Gobetti sono, per usare un eufemismo, inesatte, ma sarebbe forse più giusto definirle "acrobatiche" e funzionali al loro particulare etnos kulturale. Emblematico, in questa prospettiva, il saggio di Paolo Flores d'Arcais nell'edizione Einaudi del 1995 de "La Rivoluzione Liberale": comicità allo stato puro nelle sue conclusioni (R.L.=mani pulite).

Il limite di queste "letture", da un punto di vista scientifico, è costituito dall'ignorare la complessità del pensiero di Gobetti e dal non operarne la necessaria storicizzazione. Il liberalismo di Gobetti, come lui stesso lo definisce, è "rivoluzionario", fondato sulla lotta, "affermazione di libertà che nasce dall'applicazione del metodo dialettico". Detto questo, è assolutamente vero che la Rivoluzione d'Ottobre, così come interessò intellettuali di diversa estrazione, attrasse anche Piero Gobetti; e la sua "attrazione" oltre che politica fu culturale e sempre finalizzata alla comprensione di un popolo, quello russo, diventato protagonista della scena politica mondiale. Orbene, questa attenzione al "popolo" non è certo casuale e ha un profondo significato non solo storico, ma "ideologico".

La tesi di Gobetti,infatti, è quella secondo la quale la Rivoluzione Russa non avesse nulla a che fare con l'ideologia di Marx e fosse, invece, la dimostrazione del contrario. Scrive Gobetti:"i mezzi coi quali vogliono attuare questa concezione sono essenzialmente politici e cioè invertono la marxistica dipendenza della politica dall'economia e negando per la legge della violenza lo spirito evolutivo del marxismo ne costituiscono in ultima analisi una degenerazione ancor più dannosa". La Rivoluzione d'Ottobre non è, quindi, "esito meccanico di una situazione economica", ma atto storico-politico motivato e mosso da un'esigenza primaria di libertà: liberale, quindi, senza alcun connotato ideologico, come ogni vera rivoluzione. La Rivoluzione Russa è, per Gobetti, un paradosso liberale determinato dall'affermazione della libertà cui anelava il popolo russo. Lenin e Trotzski sono gli intellettuali che con la loro opera, definita da Gobetti come "la negazione del socialismo e un'affermazione e un'esaltazione di liberalismo", risvegliano le coscienze, sono "uomini d'azione che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima". Purtuttavia, secondo Gobetti, la formula di Trotzski "il potere ai Soviet" è stata accettata "solo perchè ha significato essenzialmente in questa prima fase la ripartizione delle terre ai contadini, cioè l'opposto del contenuto rivoluzionario del socialismo". E ancora: Gobetti afferma l'importanza del Soviet per il "suo carattere di organizzazione che procede dal basso [...]capace di offrire una forma di coesistenza e di collaborazione di tutti gli elementi produttivi, [...], l'unico rimedio contro i trust industriali e contro i rapaci sindacati operai istituiti burocraticamente". Essi, tuttavia, costituiscono solo una forma transitoria della strutturazione del potere politico e solo "il decorso dialettico della politica dal basso originerà le vere istituzioni": essi "dovranno necessariamente lasciare il posto ad altre istituzioni più adatte alla manifestazione della volontà popolare".

Secondo Piero Gobetti, quindi, il paradosso della Rivoluzione Russa risiede nel fatto che essa si proclama socialista mentre è liberale perchè determinata da un risvegliato anelito di libertà e non certo dalle teorie marxiste, le cui premesse non esistevano nella Russia dello Zar. Gobetti è perfettamente consapevole della natura paradossale della Rivoluzione d'Ottobre e perciò valuta come un'assurdità logica e storica il voler importare in Italia quell'esperienza. Egli scrive: "Da noi le classi inferiori sono andate conquistando il potere da molti anni, secondo la loro forza e il loro valore effettivo; la rivoluzione avviene gradualmente entro le forme [...] legali. Lo Stato liberale non è nè Stato borghese nè Stato proletario". [...] "Come storici [...] vediamo tutta la impotente inutilità di una scimmiottatura italiana la quale non farebbe altro, allo stato odierno delle cose, che sopprimere uno dei termini concreti della vita storica [...] per instaurare il segno superato della verità della stasi: la teocrazia o il socialismo". [...] "L'internazionalismo è unito come il collettivismo: Lenin è il più grande degli statisti dell'ora presente, ma una rivoluzione che si ispirasse a lui sarebbe condannata al più clamoroso insuccesso".

E' "altra" la rivoluzione di cui l'Italia necessita: essa, per Gobetti, non può che essere "motivata nella sua storia, liberale nella ragione giustificatrice e democratica in quanto fattore di popolo per superare le tare del processo risorgimentale, creare una reale lotta politica e vere classi dirigenti".
Per Gobetti "la rivoluzione rappresenta il momento terminale di un processo spirituale, il risveglio di un popolo che trova se stesso, acquista maturità, determina una rottura con la propria storia passata e costruisce una nuova storia".

Roberto Mancuso